oggi vi parlo della mia ultima lettura, che di certo non posso definire estiva ma che spero possa ispirarvi per i vostri acquisti librari il prossimo autunno - inverno. Mi riferisco a Mathilda (Qui l'anteprima) di Mary Shelley, opera secondaria della celebre scrittrice inglese, oggi disponibile in una nuovissima e bellissima edizione tradotta da Alessandranna D'Auria ed edita da Darcy Edizioni.
"In vita non ho osato, nella morte svelo il mistero."
Scritto nel 1819, Mathilda è un romanzo breve, semi-autobiografico, che Mary Shelley scrisse dopo aver prematuramente perso il figlio, morto a causa della malaria.
Dopo essere stato rifiutato dallo stesso padre della Shelley, editore di professione, che lo definì “disgustoso e detestabile”, e si rifiutò di riconsegnarlo alla figlia per via dell’amore incestuoso che racchiude, Mathilda fu pubblicato postumo per la prima volta soltanto nel 1959.
Dopo essere stato rifiutato dallo stesso padre della Shelley, editore di professione, che lo definì “disgustoso e detestabile”, e si rifiutò di riconsegnarlo alla figlia per via dell’amore incestuoso che racchiude, Mathilda fu pubblicato postumo per la prima volta soltanto nel 1959.
"Forse sarebbe meglio che una storia come la mia morisse con me..."
Il romanzo è in realtà una lunga lettera che Mathilda scrive al solo amico rimastole negli ultimi anni della sua breve e tragica vita, Woodville, un poeta dall’animo assai nobile, al quale confida l’oscuro segreto della sua esistenza che l’ha portata a estraniarsi dal mondo e a vivere come un’eremita in una lontana brughiera.
Mathilda racconta di essere stata cresciuta, per sedici anni, in Scozia da una zia generosa ma fredda e di aver conosciuto sin da piccolissima la solitudine.
"Ero come un luogo solitario tra montagne chiuse su tutti i lati da ripidi precipizi bui, dove nessun raggio di sole poteva penetrare e da cui non c'era sbocco nei campi più assolati."
Narra la storia di suo padre, giovane di belle speranze e di talento e del grande amore che l’aveva unito a sua madre prima che lei venisse al mondo, uccidendola. Un padre che lei non aveva mai visto prima e che un bel giorno ricompare per scoprirla pressoché identica nell'aspetto all’amata moglie, mai dimenticata.
Inizia così la confessione intima di un cuore che in un primo momento ha bevuto alla coppa della felicità più pura, per aver ritrovato l’amore di un genitore – lunghe passeggiate, momenti di spensieratezza e condivisione immersi nella natura – ma che troppo presto ha assaporato l’amaro fiele sul fondo del calice. Mathilda scopre un sentimento distorto e contro natura che da quel momento in poi la farà sentire contaminata, come macchiata e addirittura dannata.
“Folli oltre l’immaginazione di chi è felice, sono i pensieri generati da infelicità e disperazione.”
Suo padre vede in lei sua madre e dopo una durissima ed’estenuante lotta interiore, l'uomo compie un gesto estremo e irreparabile che segna per sempre e in modo indelebile la vita della figlia.
“Vedevo cosa amare e non l’amavo, immaginavo perciò che nel mio cuore tutto il calore si fosse spento.”
Una colpa tremenda si abbatte così su Mathilda e dopo il tragico evento, la ragazza non vede per sé che l’isolamento, il rifiuto della vita tra i suoi simili. Trova rifugio in una desolata brughiera, dove la natura le sarà amica consolatrice ma anche liberatrice, consegnandola infine alla morte tanto sospirata e agognata, che non ha saputo darsi da sé e che pone fine a tutte le umane sofferenze.
“Ma la terra non sarebbe la terra se non fosse ricoperta di rovine e dolore. (...) L'infelicità era il mio elemento e solo chi era infelice mi si poteva avvicinare.”
Mathilda è un’opera struggente, complessa, poetica, romantica nel senso più antico del termine. Un’opera decadente che lascia poco spazio alla speranza, se non affidandola alla morte che salva, che tutto libera, tutto cancella. Un’opera che per la Shelley servì certamente da sfogo al proprio dolore.
“Mi siederò tra i pini e vagherò nella brughiera che piange e si lamenta senza desiderare che voi ascoltiate. Io non sono adatta alla vita. Perché sono obbligata a vivere? A trascinarmi ora dopo ora, a vedere gli alberi agitare i loro rami inquieti, a fiutare l’aria e soffrire in ogni cosa?”
Periodi lunghi e articolati appaiono quasi come dei lamenti che ritornano in tutta la seconda parte del testo come a voler rimarcare la disperazione provata dall’autrice e quindi dalla sua eroina.
Mary Shelley eccelle nel descrivere l’anima lacerata tra la vita e la morte.
Può sembrare che la protagonista non faccia che piangersi addosso per la sua sventurata sorte e ciò, essendo accompagnato da uno stile aulico e ricercato, non ne fa certamente una lettura leggera, piuttosto una lettura poetica, dove tutto accade velocemente e dove il dramma è seminato fitto tra le pagine.
Mathilda in fondo è la vita che prima dà, talvolta anche nel modo sbagliato, e poi tragicamente toglie.
"In verità sono innamorata della morte; nessuna ragazza ha mai avuto più piacere nel contemplare il suo abito da sposa, di me nell'immaginare le mie membra già avvolte nel loro sudario: non è dunque quello il mio abito da sposa?"
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Grazie
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