La rotonda figura di Madame Lefevre scese dalla carrozza appena le ruote si arrestarono sul selciato di ciottoli e il valletto, con i suoi guanti bianchi, le aprì lo sportello. La dama saltò giù dal predellino come se fosse stata ancora una fanciulla leggiadra e nel fiore degli anni. Poggiati i piedi, fasciati nelle scomode scarpette di raso, al suolo, gonfiò il petto generoso nella scollatura. Le sue forme paffute nel vestito di taffetà giallo, dalla gonna ampia e dal corsetto in cui sembrava essere entrata a forza, le davano un aspetto impacciato e buffo. Prese un respiro profondo e gonfiò le rubiconde guance incipriate, poi scosse la testa lasciando oscillare gli sparuti boccoli ingrigiti, mentre in cima all’acconciatura una morbida piuma giallo canarino svettava come ornamento. Aveva indossato per l’occasione i gioielli più preziosi che era riuscita a trovare. Uno smeraldo dalle dimensioni di un uovo di colombo le pendeva dal collo; un grosso anello, un bracciale incastonato di gemme e due orecchini color ambra, completavano il ricco quadro. Si mosse frettolosa lungo il selciato del vialetto d’ingresso, illuminato da fiaccole appena tremolanti.
Davanti a lei, la monumentale scalinata di pietra levigata conduceva al terrazzo sovrastante, circondato lungo tutto il perimetro dalla balaustra bianca e da enormi fioriere in cui spuntavano rigogliose rose gialle. Oltre le enormi vetrate in cima alla scalinata, s’intravedevano i lussuosi tendaggi bianchi dell’interno. Alzò il mento tondeggiante sulla facciata della barocca villa in cui si trovava una delle più grandi sale da ballo di tutta Parigi.
La corpulenta donna prese il suo ventaglio dalla piccola borsetta che, sorretta da una sottile cordicella, portava appesa al braccio e prima ancora di mettere piede sul primo scalino, iniziò a sventolarsi, accaldata.
Era una calda sera di luglio, non un alito di vento muoveva le fronde degli alberi, le sue gonne e suoi merletti. La notte era limpida, punteggiata di stelle.
Le note di un valzer colpirono il suo orecchio e con ritrovato vigore Madame Lefevre si affrettò lungo la scalinata, arrivando in cima in un baleno, accaldata, con il fiato corto e le guance arrossate per l’esercizio.
I suoi occhi scuri precedettero il suo corpo e furono i primi ad entrare nella sala, attraverso l’ampio ingresso della portafinestra spalancata, mentre sostava ancora sul grande terrazzo, ansimante. Dietro di lei altri ospiti riccamente vestiti sopraggiungevano.
Sostò mentre lo sguardo sognante si spostava sulle eleganti figure danzanti nella sala. Fanciulle in età da marito nelle loro sfavillanti gonne e giovanotti impettiti e dai capelli impomatati, volteggiavano elegantemente al ritmo melodioso dell’orchestra. Tutt’intono al perimetro dell’immensa sala erano state accuratamente sistemate delle sedie riccamente rifinite e rivestite di raso azzurro. Dalle pareti bianche sporgevano qua e là ricchi capitelli forgiati ad arte da un illustre scultore italiano. Un unico e maestoso lampadario, ornato di catenelle di cristalli intrecciate tra loro, illuminava la sala dal centro del soffitto, dove tutt'intorno erano state sapientemente dipinte figure angeliche e seminude.
Quella notte si danzava, a Parigi.
Due valletti, nelle loro uniformi dalle calze aderenti sui polpacci e le lunghe giacche rosse con le code, sostavano presso l’ingresso, l’uno di fronte all’altro, porgendo inchini agli invitati del gran ballo del marchese De Boulogne. Tutta la nobiltà parigina quella sera era stata invitata nella lussuosa dimora del conte, amante di occasioni mondane e di lauti banchetti. Madame Lefevre aveva passato le ultime ore della giornata a prepararsi per quella serata, a cui era stata invitata solo per pura cortesia, e le ore precedenti a struggersi dal desiderio di andare o di rinunciarvi. Il suo invito era giunto non perché fosse una nobildonna parigina, sapeva bene di non essere altro che una borghese da quando il suo povero marito aveva dilapidato tutte le loro fortune al gioco, lasciandola senza il becco di un quattrino prima della sua definitiva dipartita. Si trovava a casa della sua amica, la contessa De Laclossy, quando le due figlie maggiori del marchese De Boulogne erano venute personalmente a fare visita a quest’ultima e invitandola al ballo con tanto di biglietto decorato, si erano sentite in obbligo di estendere l’invito anche a Madame Lefevre, caduta in disgrazia e ripresasi in parte dal crollo solo grazie a un’insperata eredità lasciatale dal fratello.
Non più bella, non più giovane, non più magra come un fuscello, sola nella sua piccola dimora che affacciava sulla Senna, Madame Lefevre era stata preda di un’ inspiegabile nostalgia, dal giorno in cui qualcuno, seppur per sola cortesia o forse peggio ancora per compassione, le aveva dato il permesso di varcare la soglia di un mondo che da giovane aveva conosciuto molto da vicino.
C’era stato un tempo in cui lei aveva danzato nelle sale da ballo di tutta Parigi, aveva volteggiato tra le braccia di conti, baroni, marchesi, ufficiali, comandanti dell’esercito nelle loro seducenti uniformi. Alla morte di suo padre, che era stato un mercante di stoffe arricchitosi con il commercio della seta, le fortune di famiglia andarono al solo figlio maschio dato che lei, allora graziosa e innocente, aveva sposato il ricco conte Lefevre. Quel matrimonio era stato ben accetto dalla sua famiglia, ma lei era ignara dei vizi del conte che l’avrebbero resa infelice, intrappolata tra debiti e un matrimonio dove non era arrivata nemmeno la benedizione di un figlio. Alla morte del fratello, anche lui senza eredi, quello che restava dell’eredità paterna, da lui saggiamente sperperata, era andato a lei, permettendole di risollevarsi da povera a borghese, ma comunque non sufficiente per poter essere ben vista in palazzi come quello davanti a cui sostava adesso.
Prima di uscire aveva così provato a farsi bella, cercando nei ninnoli di valore, appartenuti un tempo a sua nonna, di cancellare le piaghe del tempo. Un vestito di taffetà giallo - di quella stoffa setosa e frusciante, lucida e luminosa, stile rococò, leggerissimo e dai riflessi cangianti ottenuti dall’intreccio della raffinata trama - era stato per anni in un antico armadio della casa paterna; appartenuto anch'esso a sua nonna, nobile dama alla corte di Francia.
Adesso era giunta a destinazione, la carrozza giù in fondo alle scale l’aveva accompagnata e lei tutta in ghingheri stava davanti allo spettacolo dei ricordi che furono.
Due avvenenti dame sostavano in un angolo del terrazzo e la osservavano da sopra i loro ventagli aperti.
Una era vestita d’azzurro e l’altra di verde, parlottavano di lei alzando ironicamente le arcuate sopracciglia, senza curarsi di essere viste. Madame Lefevre provò un terribile disagio. Aveva ceduto al capriccio di essere lì. Perché? Davvero aveva creduto che un ballo potesse riportare indietro il tempo o farla illudere almeno per un po’ di essere la fanciulla di una volta? Un ballo, con i suoi svolazzi ti trine e passi leggiadri, poteva forse afferrare le braccia del tempo e in una giravolta riportarla a quello che era stata?
Sapeva di essersi sciupata, di essere spesso sciatta e sola nella sua casa, di aver perso ogni contatto con quel mondo a parte la sua cara amica marchesa, eppure quell’invito al ballo aveva risuonato per lei come un’occasione per essere felice un’ultima volta.
Si era illusa ed era dovuta arrivare fin lì per capirlo, fino in cima a quella scalinata maestosa, davanti alla facciata imponente e al suono melodioso dei valzer che provenivano dalla sala da ballo.
Gli ospiti le sfilarono accanto, mentre lei avvolta di giallo, come un sole che ha sbagliato il suo momento, rimase ancora un attimo, immobile. Aveva perso tutte quelle ore per calzare nel vestito d’epoca di sua nonna, donna robusta come lei adesso, aveva lucidato i suoi unici gioielli ereditati e comprato la migliore cipria profumata. Aveva sopportato la tortura di quelle fastidiose scarpe di raso, eppure dentro di lei sapeva che non avrebbe danzato quella sera. Le fanciulle avrebbero riso di lei se mai un uomo l’avesse portata al centro della sala e con un inchino le avesse reso omaggio, poggiando poi la mano su uno dei suoi fianchi non più tonici. Sarebbe stata ridicola, avrebbe suscitato l’ilarità e i mormorii dei presenti. Le guance rosse di una vergogna ancora da provare, accaldarono Madame Lefevre più di quanto già non fosse.
Non era quello il suo posto, non più. Si sentì ad un tratto inadeguata. Come aveva potuto cedere alla stupida vanità di poter essere ancora giovane e bella, quando sapeva che era impossibile? Si voltò, pronta a far ritorno a casa. Diede le spalle alle turbinanti danze, ai fasti, ai convenevoli e a tutto quando non la rappresentava più.
La sua gonna di taffetà frusciò mentre compiva il mezzo cerchio per ridiscendere le scale. Il febbrile entusiasmo da poco deceduto su quell’ultimo gradino, fu spazzato via dalle sue sottane e gli occhi ormai disincantati, mesti e aridi, si posarono sulle grandi fioriere lungo il perimetro del terrazzo, allineate a intervalli regolari lungo la balaustra ai lati dalla scalinata.
La donna ondeggiò un attimo e si avvicinò alla fioriera più vicina, alla sua sinistra. Negli enormi vasi di pietra decorata, curatissime rose gialle si affollavano sotto i pallidi raggi della luna. Tutte insieme, come un ricco ornamento, sfoggiavano la loro gaiezza di petali dorati, vellutati e soffici. Rose gialle come il vestito che indossava, come il tempo della giovinezza che non sarebbe mai più tornato. Rose dai petali setosi e delicati al tatto, esattamente come il taffetà che avvolgeva il suo corpo non più giovane.
Un tempo erano state in boccio, adesso erano in piena fioritura, domani sarebbero appassite.
Un tempo lei era stata giovane e voluttuosa, adesso era sfiorita.
Quelle rose sarebbero sbocciate ancora dopo un anno, se curate, o forse mai più, se maltrattate dall’inverno e da un giardiniere poco amorevole. Il suo giardiniere aveva permesso che lei non fiorisse mai più, estirpandone ogni ardore con i propri vizi. Gli occhi di Madame Lefevre brillarono un’ultima volta prima di distogliere lo sguardo e posare il piedino paffuto sullo scalino sottostante.
Quelle rose si trovavano fuori, in balìa del tempo, come un tempo era stata lasciata lei. Non erano state portate dentro per abbellire tavoli e angolini per signore. Allo stesso modo lei non era stata invitata a prendere posto a quegli stessi tavoli e a quegli stessi angolini dove si fabbricavano chiacchiere e pettegolezzi sorseggiando champagne. Erano gialle ed erano leggere, ma da lì a poche settimane sarebbero sfiorite, proprio come la giovinezza dopo i primi venti impetuosi della vita.
Fissò le rose un’ultima volta, poi Madame Lefevre afferrò l’orlo delle sue soffici sottane con entrambe le mani, stando attenta a non inciampare, ed insieme ad esse afferrò la sua delicata solitudine, pronta a far ritorno a casa.
Antonella Iuliano
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